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Il discepolo apprende così da questa parabola [quella del Buon Samaritano] la sapienza dell’alternanza: camminare e fermarsi, partire e ritornare, accostarsi e lasciar andare. Perché per tutto c’è un tempo. Il samaritano non ha con sé una sala operatoria, non ha anestetico, non ha bisturi. Ha solo un po’ di olio e un po’ di vino e, ricordandosi del valore curativo di questi elementi, li usa per quelle ferite gravi che potrebbero presto far morire l’uomo. Così apprendiamo da quest’uomo come ci si prende cura dell’altro: non facendo l’impossibile, ma facendo quello che si può, nel modo migliore. Oggi non sono pochi i dolori che sovrastano l’uomo: le ferite del corpo o le ferite del cuore a volte sono molto gravi… e quasi scoraggiano ogni intervento. Eppure nella strada che scende “da Gerusalemme a Gerico” il samaritano non si arrende: non sta lontano dall’uomo ferito perché è troppo poco ciò che può fare. Vive invece la sapienza della prossimità umile. Accetta che può fare poco con il suo olio e il suo vino, ma si accosta. Il racconto continua dicendo: “Poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui.” Il samaritano si fa carico dell’altro, gli dà uno spazio nella sua stessa vita, nella sua giornata. “Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”. Il samaritano vive nella legge della condivisione. Non tiene solo per sé il suo tempo, i suoi passi, la sua vita, e… neanche il diritto di avere l’esclusiva del curare chi ha incontrato.

Gaetano La Speme, L’incontro che cura. Gesù, noi, gli ultimi, ed. Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2017, pag. 47-20

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