C’è un’altra parola che era risuonata nel cuore di Maria a Nazareth, trent’anni prima, e che ora a Getsemani ritorna. In quel momento di smarrimento e di ricerca interiore per l’avvento di una novità inattesa e sconvolgente, la ragazza di Galilea aveva sentito di poter confidare nonostante tutto nella misericordia di Dio, aveva “creduto” (ed è questa secondo Elisabetta la sua beatitudine: “Beata te che hai creduto”) sulla base di una convinzione profonda, radicata con un ficus secolare nella storia di Israele: “Tutto è possibile presso Dio”. Se Dio ha soccorso e fecondato la sterilità di Elisabetta – la stessa sterilità di Sara, di Rebecca, di Rachele, di Anna, della moglie di Manoach – allora può far sì che anche il grembo di una vergine sia fecondo. Su questa certezza Maria aveva gettato le reti, si era consegnata: “Avvenga di me secondo la tua parola”. Anche lei aveva attraversato l’angoscia dell’ignoto, la trepidazione del non sapere, il rischio del rifiuto, e alla fine, in quella casa di Bethlehem, aveva visto la luce. Ora a Getsemani tocca a suo figlio addentrarsi nell’oscurità della prova, affrontare il perirasmos valicabile solo in forza della fede. A Getsemani si ripete dunque la vicenda di Nazareth. Come è scritto nel dinamismo più profondo dell’esistenza umana, la nascita e la morte si incontrano, rivelando il loro sconvolgente parallelismo.
Antonio Sichera, Fino alla fine. Meditazioni su Getsemani, ed. Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2011, pagg. 102-103