Come narra un midrash ebraico, Dio – già esperto della fuga senza ritorno di Lucifero – promette a se stesso – che questa volta con l’uomo andrà diversamente e va a cercarlo, e lo trova impaurito ma non pentito, imbronciato, incapace di rivolgerGli lo sguardo con umiltà e incapace di guardare Eva, alla quale aveva rivolto il primo canto d’amore. Non è facile per Dio riprendere l’uomo. Ogni volta che Egli si avvicina, l’uomo lo percepisce come colui che schiaccia o salva (tappabuchi) con la Sua Grandezza. E allora la Trinità inventa una soluzione alternativa. Per amore del Padre, il Figlio lascia la divinità (sua proprietà) e “fattosi uomo” va alla ricerca dell’uomo. Si presenta all’uomo nella debolezza creaturale. Nasce da donna, conosce stanchezza, tristezza, rifiuto e abbandono, la tentazione e il tradimento. Nel momento in cui gli uomini vogliono ucciderlo non si sottrae alla sua forma di uomo, non invoca la sua divinità ma rimane fratello, uomo come gli altri. Se fosse sceso dalla croce per dimostrare di essere Dio (come gli chiedevano), avrebbe insegnato agli uomini a non uccidere Dio; rimanendo sulla croce, come un pover’uomo, ha insegnato agli uomini a non uccidere nessun uomo, perché siamo tutti fratelli. Solo un Dio fatto uomo poteva convincere l’uomo che il non-essere-come-dio non è privazione, non è una sottrazione di divinità, ma un dono “completo della sua incompletezza”. Sulla croce Gesù vive e mostra agli uomini che si può continuare a credere che il Padre ci ama: scenderà agli inferi, conoscerà l’abbandono, ma continuerà a credere all’amore del Padre.
Giovanni Salonia, La valenza formativa del Mistero Pasquale, in XXV di “Mutuae Relationes” Una rilettura a più voci, a cura di P. Vanzan e F. Volpi, Roma 2004, pagg. 130-131