e’ nel sostegno umano di quel contesto pasquale, nella prossimità affettuosa dei suoi amici, che Gesù “consegna” la vita per loro e per tutti nel pane e nel vino, con una determinazione impressionante. Come può accadere ed accade a tutti noi nei momenti più importanti, belli o dolorosi, che hanno un altro sapore, un’altra forza se vissuti assieme, se attraversati nell’amicizia, se hai la fortuna di avere accanto quelli che hai scelto e amato. Poi però Gesù esce dal cenacolo e possiamo almeno immaginare la durezza del passaggio. Perché dentro c’era il segno, la parola, la vicinanza. Fuori c’è la notte, c’è l’imminenza terribile dell’evento, c’è il “faccia a faccia” con il dolore e la morte, che si fa sempre più prossimo e ineluttabile. Ora Gesù deve portare a termine quel che ha prefigurato nel pasto, ma la realtà è molto più dura e difficile di una drammatica cena liturgica con gli amici. Possiamo immaginare la difficoltà di quei momenti. Gesù esce e sente che rimarrà da solo, che tutti lo lasceranno, “si scandalizzeranno” di lui. Come a dire: la dolcezza di quella comunione appena sperimentata si muterà nell’aspra durezza della pietra in cui si inciampa. Gesù inizia lì in verità la sua passione, quando nella notte sale verso l’orto e non c’è più niente da fare assieme, da vivere assieme, ma c’è solo l’abisso, il punto oscuro. […] Gesù non lo ha assunto come un asceta, ma alla maniera di tutti ha assaggiato la paura della notte e la precocità di quel passaggio che la nostra carne intimamente rifiuta. Per questo il suo volersi portare appresso Pietro, Giacomo e Giovanni, i più intimi fra i suoi, nell’orto, suscita nel lettore grande solidarietà e tenerezza. Nemmeno alla solitudine si è arreso, nemmeno nella sua ora ha voluto introdursi da eroe solitario, quasi a ricordarci della dignità assoluta di una responsabilità a cui non possiamo sfuggire, ma anche del diritto di ogni uomo a non entrare da solo nella prova.
Antonio Sichera, Fino alla fine. Meditazioni su Getsemani, ed. Il pozzo di Giacobbe, pagg.73-74