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…dov’era Dio ad Auschwitz? Si sa che pensare la teologia dopo Auschwitz significa intraprendere un cammino di conversione da un’immagine di Dio onnipotente e provvidente a quella di un Crocifisso debole, fragile, impotente. Credere in questo Dio che non aiuta e non protegge dall’essere “gettati nel mondo” è difficile, ma inevitabile[…] Quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu, Signore, non puoi aiutarci , ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi […]  (Hillesum). Francesco l’aveva intuito quando chiedeva a Dio non la liberazione dalla sofferenza, ma la grazia di sentire tutto il dolore e tutto l’amore che Dio aveva provato per noi. Di fronte a un Dio che perdona, ma non umilia, che propone e non impone, non punta il dito per accusare ma per indicare una stella, che piange con l’uomo e per l’uomo, di fronte a un Dio che ha conosciuto l’angoscia di una Padre che lo ha amato, ma non gli ha tolto la croce, l’uomo postmoderno può scoprire il rapimento estatico, può ritrovare il volto che, consapevole o no, sta cercando con una infinita passione. Di fronte a un Dio che è bello e ti vuole bello l’uomo può riconoscere  l’oscurità e la mancanza di “grazia” del proprio peccato. Certamente l’uomo di oggi sente risuonare dentro di sé le pagine del vangelo in cui Gesù di Nazaret non sembra interessato, non sottolinea la colpa dell’uomo che la riconosce, ma apre l’orizzonte del compito, della missione. A Pietro che dice: “Allontanati da me che sono peccatore”, Gesù, che non sembra aver ascoltato questa auto confessione, risponde: “Ti farò pescatore di uomini!”

Giovanni Salonia, Senso del peccato ed esigenza di riconciliazione nella postmodernità, in Una nuova riconciliazione, EDB, pagg. 48-49

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