Come ci ricorda il teologo Giuseppe Ruggieri commentando il “sopportarsi a vicenda” di Paolo (cf. Ef 4,2), il “dare e ricevere sostegno” nei momenti di fragilità e vulnerabilità è qualità del cristiano. Anche Gesù nel Getsemani – entrando nell’agone che l’attendeva – chiese conforto ai suoi discepoli. E il loro addormentarsi (cf. Mt 20,40) fu riparato da un angelo (cf. Lc 22,43). Forse fu riparato anche dal ricordo di sua madre, che gli aveva insegnato sin da piccolo a ripetere come figlio al Padre: “Avvenga per me secondo la tua parola”. L’obbedienza di Giuseppe e Maria, la forza dello Spirito, hanno generato il miracolo della resilienza di Gesù di Nazaret nel momento più drammatico della sua e della nostra storia. Segno della resilienza non è sentire il coraggio (e negare la paura), ma il sentirsi “pronti”: “Firmavit faciem suam” (“prese la ferma decisione”) aveva già detto Luca parlando di Gesù che si avviava a Gerusalemme (Lc 9,51). Solo chi ha ricevuto e riceve un dono (il dono della presenza che “supporta”) può sentire dentro il proprio corpo e la propria anima di “essere pronto”. A questo punto si svela il cuore della resilienza: essere pienamente se stessi ed essere pronti a donarsi , a consegnarsi. Pronti a consegnarsi: ecco il punto di arrivo di ogni cammino educativo e curativo. Pronti: e cioè aver maturato tutte quelle competenze che formano il potere personale. Consegnarsi: essere disposti a rischiare nel dono. Risulta (sembra) più facile spesso evitare il sentire la propria pienezza e tenersela per sé, ma il rischio è l’atrofizzarsi nell’autoreferenzialità. Più facile lasciarsi bloccare dalla paura, ma il rischio è di non arrivare mai alla propria pienezza. Solo il donarsi fa vincere la paura e permette alla pienezza di diventare generativa.
Giovanni Salonia, Resilienza e dono, in Credere Oggi, Edizioni Messaggero Padova, 2017, pagg. 140-141