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A cosa siamo chiamati di nuovo? Se al posto della paura dinnanzi all’emigrato che bussa ci fosse la meraviglia che ha caratterizzato alcuni incontri di Gesù, che cosa cambierebbe per l’agire cristiano? I cambiamenti sono un problema o sono una possibilità di evoluzione? Lo straniero è un problema o un appello? Per le nostre coste, lo straniero è una minaccia o una vocazione? E’ anticipazione del regno dei cieli o inferno? […] se al momento non riusciamo ancora a dare risposte che ci soddisfano, non per questo dobbiamo abbandonare le buone domande! Se le domande sono ben poste, non sono esse che hanno bisogno di conversione, piuttosto sono le risposte che necessitano ancora del crogiuolo della Parola di Dio e di quella degli uomini, della storia e della fede, di intelligenza e di sguardi. Da esse preferiamo lasciarci scuotere, anche qualora ritenessimo – o fosse più comodo – cambiarle.

Poi ci sono le ultime parole di guarigione al servo del centurione: “Va’, avvenga per te come hai creduto”: Gesù ha ascoltato il grido del centurione, si è lasciato stupire dalla sua fede, ha guarito il servo e, infine, lo ha lasciato andare. Questo diventa uno spunto di riflessione ulteriore: occorre stare accanto allo straniero prendendosi cura di lui, ma lasciandogli la possibilità di andare via. Il racconto non dice se il centurione andò via oppure restò con Gesù. Non importa cosa fece, ciò che conta è che Gesù si sia accostato con libertà interiore, senza la pretesa di trattenere o di avere un guadagno. La cura dello straniero esige ed educa alla gratuità.

Gaetano La Speme, L’incontro che cura. Gesù, noi, gli ultimi, ed. Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2017, pagg. 39-40

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