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CHa scritto in modo provocatorio un teologo: “L’uomo di oggi non soffre per il peccato, ma per l’assurdità della propria vita; non lo spaventa la collera di Dio, ma la sua assenza: non ha bisogno di essere perdonato, quanto di essere rassicurato; non cerca la misericordia di Dio, ma un Dio presente. Dio, dove te ne sei andato?” L’uomo postmoderno sembra poco sensibile a temi quali la colpa e il peccato, che assumono risonanze drammatiche nei contesti sociali del “noi”: peccato e colpa rimandano, infatti, alla paura di separarsi da un’appartenenza. Si ha così, nei confronti della legge un atteggiamento di disinteresse e di rifiuto fin quando la si percepisce come esterna, come un limite che blocca il bisogno di “integrità” (la legge non mi fa essere me stesso perché mi impone qualcosa che “non sento” mio) o il bisogno di “pienezza” (la legge mi impedisce di fare tutte le esperienze e questo è un limite alla mia piena realizzazione). L’”accettazione senza condizione” dell’esistente in quanto esistente rimanda a un atteggiamento che dalla madre in poi è richiesto nei confronti di ogni altro che si incontra. Questa prospettiva trova una sua profonda risonanza (e fondazione) nella visione cristiana di un Dio che ama l’uomo per quello che è, prima ancora che si converta, con un inesauribile anticipo di fiducia. L’essere amati senza condizioni si rivela una delle condizioni privilegiate per la crescita della persona. La problematica (o il limite) che emerge da questo atteggiamento certamente positivo (anche se, a volte, esasperato e banalizzato) riguarda il “dover essere”. Non basta, in altre parole, esser-ci, a ogni esistente si richiede il “saper-ci essere”: è intrinseco all’esser-ci un intimo “dover essere evolutivo”. E’ questo principio che rende alcune esistenze luminose e piene di vita e altre, invece, buie e smarrite nella deiezione.

Giovanni Salonia, Senso del peccato ed esigenza di riconciliazione nella postmodernità, in Una nuova riconciliazione, EDB, pagg.47-48

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